Il parto  

 

 

Alla fine del Settecento, quando non si presentava in modo naturale, il nascituro aveva pochissime possibilità di sopravvivere al parto e, qualora ci fosse riuscito, il danno cerebrale era certo. Anche h madre - che veniva sdraiata sul lettino ad usum partum - correva grossi rischi in balìa delle levatrici dell’epoca, spesso non abbastanza esperte per assistere parti difficili: era indispensabile l’intervento del chirurgo che, per salvare la vita alla puerpera, non esitava a ricorrere al suo terribile armamentario per l’embriotomia fatto di uncini, tenaglie, strumenti taglienti e forcipi perforanti. La soppressione del feto era giustificata dal fatto che se non riusciva a venire alla luce evidentemente era già morto, anche se allora le possibilità reali di stabilire con certezza la morte del bambino erano piuttosto scarse. Per non rischiare che il bambino morisse senza aver ricevuto il battesimo si usava la siringa detta di Mauriceau, dal nome del noto ostetrico e ginecologo che l’aveva inventata a Parigi nel XVII secolo.

Nel XVIII secolo il forcipe (pur essendo stato inventato tra la fine del XVI e il principio del XVII secolo ad opera della famiglia Chamberlain) divenne il simbolo della nuova ostetricia e l’esplorazione ginecologica per mezzo di “specula” ebbe il suo primo impiego scientifico. Intorno alla metà del XVIII secolo i vari governi cominciarono a prendere atto della situazione femminile: l’elevatissima mortalità da parto, il grande numero degli aborti, l’infanticidio e l’abbandono dei figli erano alcuni dei problemi a cui si doveva fare fronte. Il primo passo fu la formazione di personale specializzato.

Accanto alle scuole di chirurgia nacquero quelle di ostetricia. Le prime furono realizzate a Londra, a Parigi e a Vienna. A Roma, la prima scuola di ostetricia presso l’Università cominciò umcialmente nella seconda metà del XVIII secolo, dopo l’apertura della prima scuola di ostetricia per gli studenti ospedalieri e per le levatrici nell’Ospedale Santo Spirito. Le esigenze didattiche imposero la necessità di utilizzare un materiale adatto all’esercitazione delle allieve ostetriche e dei chirurghi. Vennero usati modellini (in legno, cera, avorio, carta) che rappresentavano il corpo intero della donna: l’addome si poteva aprire strato dopo strato, fino ad arrivare all’utero dove era accolto un feto mobile. Tali modelli furono chiamati “Veneri anatomiche”.

Il materiale più adatto per i modelli ostetrici si rivelò essere la cera: nel XVIII secolo la ceroplastica raggiunse l’apice della sua fortuna, dovuta alla malleabilità e alla colorabilità di questo materiale. Le cere del Manfredini rappresentano i parti nei quali il feto si presenta in modo anomalo: i bambini sono raffigurati a fine gestazione, definiti in ogni particolare, in una sorta di iperrealismo per cui l’artista ha inserito diligentemente sulle testine capelli veri. Dettagli del genere non aggiungono nulla alle informazioni anatomiche contenute nel modello, ma suuscitano comunque una certa impressione.

Il lettino da parto (sec. XVIII)
Un forcipe


Cera ostetrica di feti gemellari (sec. XVIII)